LA TERRA NOSTRA È UN MOSTRO DI MARE

La terra nostra è un mostro di mare è la mostra che inaugura il terzo ciclo espositivo di KORA-Centro del Contemporaneo dedicato al tema dell’abitare. A cura di Claudio Zecchi e Paolo Mele, la mostra apre un biennio di ricerca (2023-2025) su un tema complesso e sempre attuale come quello del Mediterraneo, provando ad indagarlo da prospettive differenti. Una mostra della durata di un anno che vedrà l’alternarsi di diversi allestimenti nel corso del tempo.La casa e il villaggio hanno agito nel corso di questi anni come dispositivi narrativi atti ad interrogarsi sulla dimensione istituente di un Centro di produzione e ricerca sul contemporaneo (Home Sweet Home – esplorazioni dell’abitare, 2021-22) e sulla scelta consapevole di una posizione di marginalità come osservatorio privilegiato e strumento di produzione culturale con l’ambizione di rimettere discussione le nozioni di centro e periferia (Parla del tuo Villaggio, 2022-23)

In questa mostra il Mediterraneo, inteso come terra e mare allo stesso tempo, luogo di contrasti e contraddizioni, viene proposto come possibile unità di misura e ipotesi di un cambiamento di paradigma. Seguendo questa linea, tutte quelle peculiarità che possono sembrare apparentemente improduttive e inutili assumono valore e allargano il nostro immaginario. Come i Fannulloni di Cossery, che si ostinano a non agire scegliendo di dormire tutto il tempo come strategia di resistenza, la lentezza, la magia, il folklore, la superstizione e la tradizione vernacolare non sono una caricatura del mondo ma diventano, o potrebbero diventare, lenti e strumenti di interpretazione attraverso cui l’esperienza che ne facciamo può farsi più ricca, ampia e plurale. Voci, quindi, altrettanto autorevoli capaci di condurci verso destinazioni impreviste, improduttive, spesso non programmabili, piene allo stesso tempo di contraddizioni e contrasti. L’opera di Riccardo Giacconi e Carolina Valencia Caicedo Scarcagnuli, il cui incipit dà il titolo alla mostra, sposta costantemente, attraverso il racconto di storie personali che s’intrecciano con la tradizione, il folklore e i riti del posto, il rapporto tra realtà e finzione partendo da una forte attinenza al territorio in cui è stata realizzata: il Capo di Leuca. L’opera, non solo allarga i confini spazio-temporali, ma rimette in gioco la specificità di un posizionamento geografico che, come dicono i pescatori di Santa Maria di Leuca, è allo stesso tempo inizio e fine, ma anche uno spazio di approdo e passaggio nel cuore del Mediterraneo. Seguendo questa direzione, la mostra intende ragionare ed interrogarsi sulla relazione tra la terra e il mare, su come questi due elementi trovino punti di accordo ma allo stesso tempo di disaccordo e di tensione, e su come, infine, le immagini prodotte da questa relazione creino un paesaggio in continua evoluzione e spesso indefinibile. Un piano capace di aprire a nuovi immaginari, offrendosi a una molteplicità di accessi fatti di suggerimenti ed intuizioni più che di strade obbligate.Il Mediterraneo diventa, in questo senso, depositario di possibilità e di aperture; una piattaforma in cui la perdita di controllo, la fragilità, i coni d’ombra, gli inciampi e gli scarti possono diventare ulteriori possibilità dell’esperienza umana. Il primo allestimento si configura quindi come il tentativo di costruire una geografia dell’infedeltà, una mappatura in cui, se da una parte si avverte forte la presenza del territorio, del luogo di origine e delle sue radici, altrettanto forte è il desiderio di allontanarsi da esso. E poi di tornare. 

In questo senso la struttura della mostra è circolare: si apre e si chiude con due ritratti, uno corale (Scarcagnuli) e l’altro di un soggetto vivente non umano (Storia di un Albero). Opere fortemente contestualizzate nel territorio salentino ma allo stesso tempo ricche di riferimenti che alludono ad una geografia umana più vasta in continua tensione tra reale e immaginario, generatrice di idee che sottraendosi a misurazioni stratigrafiche finiscono per rimettere in questione uno spazio decentrato e visionario.

Scarcagnuli di Giacconi e Caicedo è un ritratto sonoro che indaga il concetto di estremo attraverso un incedere di storie personali che s’intrecciano con la tradizione e il folklore del posto – il Capo di Leuca – diventando così universali. 

La terra : piatta Il mare : piatto di Hervé e Martinez racconta, partendo dalla performance realizzata ad Ottobre 2022 al Parco Pozzelle di Catrignano de’ Greci, l’ambiguità del rapporto tra mare e terra mischiando elementi di verità (archivi storici, fotografie, stampe ecc.) ad elementi di finzione con l’intento di costruire una mappa mentale visiva che apre alla possibilità di reinventare la geografia scrivendo una nuova storia del territorio.

Seeds/ Si Siz di Ciancimino è invece una mappatura delle piante che crescono sulle coste (i semi delle piante contengono la memoria delle specie vegetali che si modificano per naturalizzarsi sulle rocce e sui terreni sabbiosi in cui approdano). Una cartina che prende di volta in volta nuove forme a seconda dei luoghi che la ospitano disegnando così rotte sempre diverse; una giungla di segni istintivi che rimanda visivamente alle origini culturali dell’artista influenzate dalla decorazione architettonica Arabo Normanna e dall’Art Nouveau.

Una geografia complessa, quella del Mediterraneo ci dice Favini con Arrivederci (Au revoir), crocevia di scambi, battaglie, spostamenti di persone. Arrivederci (Au revoir) riflette sui saluti sospesi che prevedono futuri incontri. Le parole disegnano linee prospettiche che guardano al mare, rimandano all’identità, pongono confini che non sono solo fisici. Arrivederci aspira a trovare incontri futuri, sperando di vedere il passato in un momento imminente.

Ma il Mediterraneo è anche luogo di fratture: luogo di una frontiera mortale e allo stesso tempo di speranza. Con Sea grammar Lagomarsino lo traduce visivamente in una sola immagine perforata ad un ritmo costante da piccoli buchi che, succedendosi, producono un unico grande foro fonte di una luce potente. L’opera invoca quindi un potente regime emotivo riguardo alla scomparsa del Mediterraneo, o l’emergere di un Mediterraneo diverso, in tutte le sue fratture, come un mare di luci. Questa mappatura così controversa torna, infine, al luogo di partenza: il territorio salentino. Storia di un Albero di Flatform, girato a Tricase, è il ritratto di un organismo vivente non umano, una Quercia Vallonea di 900 anni (quercia dei Cento Cavalieri), che nonostante la sua fissità diventa testimone di un luogo, delle storie che lo hanno attraversato e delle lingue che si sono succedute – Arbaresh, Romanès, Griku, Greco bizantino, Ebraico, Yiddish, Turco, spagnolo, Francese e Salentino – come dimostrano i dialoghi del film.